Paolo Nori

Paolo Nori, che è nato a Parma nel 1963 e abita a Casalecchio di Reno, è laureato in letteratura russa e ha pubblicato molti libri tra i quali Bassotuba non c’è (1999), Si chiama Francesca, questo romanzo (2002), Noi la farem vendetta (2006), La meravigliosa utilità del filo a piombo (2012), La piccola Battaglia portatile (2015), I russi sono matti (2019), Che dispiacere. Un’indagine su Bernardo Barigazzi (2020), Sanguina ancora. L’incredibile vita di F. M. Dostoevskij (2021), e A cosa servono i gatti (2021).
Insegna traduzione letteraria dal russo alla Iulm di Milano.
Ha tradotto e curato opere di Puškin, Gogol’, Lermontov, Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj, Gončarov, Leskov, Čechov, Chlebnikov, Charms, Bulgakov, Arkadij e Boris Strugackij e Venedikt Erofeev.
In particolare, ha tradotto e curato per i I Classici Feltrinelli Anime Morte di Nikolaj Gogol’, Oblomov di Ivan A. Gončarov e Umili prose di Aleksandr Puškin.
Nel 2022 è uscita la sua traduzione di Memorie del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij per Garzanti, mentre nel 2023 ha scritto la prefazione a Le avventure di Guizzardi di Gianni Celati per Feltrinelli.
Nel 2023 esce per Mondadori Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova.
Sempre nel 2023 scrive e interpreta Due volte che sono morto, un podcast di Chora Media per Rai Play Sound.

Tra il 2023 e il 2024 Mondadori ripubblica Le cose non sono le cose, Grandi Ustionati e Diavoli nella collana Oscar. Sempre per gli Oscar Mondadori, Nori cura Discorso su Puškin di F. M. Dostoevskij, in uscita nel 2024. Sempre nel 2024 esce per Laterza Una notte al museo russo.

Il suo ultimo libro è Chiudo la porta e urlo, pubblicato da Mondadori nel 2024.


Chiudo la porta e urlo

Mi compro una Gilera

Pancetta

Una notte al Museo Russo

Grandi Ustionati

Diavoli

Le cose non sono le cose

Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova

A cosa servono i gatti

Raffaello Baldini è un poeta grandissimo eppure pochi sanno chi è, e di quei pochi pochissimi ne hanno riconosciuto la voce. Perché scrive nel bel dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna? Ma no. Paolo Nori ci rammenta che è poeta enorme anche nel bell’italiano con cui il poeta ha sempre tradotto a pie’ di pagina i suoi versi. E quante storie si trascinano appresso quei versi, quante immagini suscitano, quanti personaggi, quanto universo c’è in quel mondo apparentemente piccolo. Come sua consuetudine, Paolo Nori attraversa l’avventura poetica di Baldini quasi come non ci fosse altro intorno, di sé facendo il filtro di una bellezza che viene su come da un fontanile e fa paura, perché ci lascia straniti. Ecco che – non diversamente da quanto è accaduto con Dostoevskji e Achmatova – l’immaginazione di Baldini si scioglie dentro quella di Nori, fatta com’è di caratteri e di accadimenti apparentemente minimi: i morti che “non dicono niente e sanno tutto”, gli uomini che invece di calarsi gli anni se li crescono, lo stare lì di una donna davanti alla circonvallazione per guardare “che passa il mondo”. Fra spinte e controspinte, fra il “cominciamo pure” e il “continuiamo pure” che ricorrono a battere il ritmo, impariamo che, sempre più, la scrittura di Nori è la messa a fuoco progressiva di un carattere, il suo: il suo essere “coglione”, il suo essere “bastiancontrario”, il suo essere “matto come un russo”, il suo essere innamorato di un poeta come Raffaello Baldini, il suo magone davanti alla casa dei Nori come fosse una scatola di bottoni, il suo stare a vedere la vita come va avanti a ogni svolto imprevisto dello stare al mondo.

Il personaggio che racconta e dice Io ha compiuto quarant’anni. L’età della maturità? Forse. Le uniche vere certezze sono la figlia, la scrittura, la città in cui vive, la letteratura russa e gli episodi esemplari che la memoria (privata o pubblica che sia) non smette di modificare e contraffare – la vicenda della mamma dell’autore che investe un maiale con la bicicletta, la scena di Pasternàk che esce dalla sua dacia per andare a ricevere la celebre telefonata di Stalin.
Fra il microcosmo emotivo del rapporto padre-figlia e il macrocosmo parmigiano (dove la campagna elettorale per il sindaco allude a un’Italia nevrotica, incompetente e vittima della propria politica), si insinua il tema cruciale della responsabilità e delle scelte individuali.

Dramatis personæ: Calisto Tanzi, Stalin, barbisino D’Alema, Boris Pasternàk, il triangolista di Parma, Leonardo Sciascia, Orietta Berti, Silvio Berlusconi, Arturo Toscanini.

Che cosa fa di un uomo un poeta? E che cos’è un poeta? E un bambino? Un provocatore? Un folle? Un profeta? Un cretino? Siamo a Pietroburgo nel 1912: percorriamo la prospettiva Nevskij con Sasa e Pasa e sentiamo che tutto si muove, sta cambiando. Non solo: si mangia pane e poesia e la parola d’ordine è Avanguardia, gettare il passato dal vapore Modernità. Sasa e Pasa arrivano dalla provincia e vogliono studiare matematica, ma non c’è tempo: bisogna pubblicare il libro che rivoluzionerà la sorte della poesia russa. Le sbornie e gli incontri all’osteria della Capra vanno di pari passo alle sbornie e agli incontri dello spirito. Corrono parallele alle comiche vicissitudini di Sasa e Pasa quelle drammatiche di Velimir Chlebnikov, il poeta per eccellenza.

«Ho cominciato a andare in Russia nel 1991, più di trenta anni fa e, in questi anni, credo di essere stato a Pietroburgo una ventina di volte. In questi venti viaggi sono stato forse tre volte in quello che, in occidente, è il più celebre dei musei russi, l’Ermitage, e più di venti volte, ventitré, credo, al Museo Russo. Non che mi dispiaccia, l’Ermitage, solo che, all’Ermitage, c’è l’arte occidentale, al Museo Russo c’è la più grande collezione al mondo di arte russa. E, fin dalla prima volta, ad attraversare le sale del Museo Russo mi è sembrato di leggere un libro di storia. Quando mi chiedono cosa ci dicono i romanzi di Dostoevskij sulla vita in Russia nell’Ottocento, a me vien da pensare che è vero, ci dicono molto, della vita in Russia nell’Ottocento, ma molto di più, mi sembra, ci dicono di noi, della nostra vita di adesso, del nostro coraggio e della nostra paura.»

Protagonista di questo libro allegro e disperato è Learco Ferrari, scrittore ormai non più aspirante nonché alter ego dell’autore, giunto alla quinta puntata della sua saga. Vittima di un incidente automobilistico, si trova ricoverato nel reparto Grandi ustionati dell’ospedale di Parma, dove deve riapprendere i gesti della quotidianità.
Un romanzo medico molto sui generis, pieno di situazioni paradossali che restituisce, attraverso una folla di voci e volti, il totale nonsense della realtà.

Nell’anno di grazia 1999 Learco Ferrari, già protagonista di tre romanzi, riceve una visita luciferina e si fa inviato di Satana. Voleva fare il traduttore, lui, forse forse anche lo scrittore, e invece eccolo qui, è diventato diavolo. Il suo compito sarà quello di seminare zizzania e scandalo nella sua sonnolenta città della provincia emiliana, che all’improvviso diventa il palcoscenico di una trascinante sarabanda dal ritmo sincopato, un due tre, un due tre, tra tic e rituali, telefonate e letteratura, gatti, anarchici e dizionari. Senza alcun freno, il diavolo Learco divide, scompiglia, calunnia, imbroglia chiunque gli capiti a tiro, portando ovunque caos e allegria.

Con grande soddisfazione di nonna Carmela, Learco Ferrari si è laureato – letteratura russa – e ora sogna di pubblicare un romanzo autobiografico, Gli ultimi giri di Learco Ferrari. Siccome la strada che separa i sogni dalla necessità di campare è lunga, l’aspirante scrittore lavora come consulente linguistico free-lance per un’azienda di import-export, due-tre giorni la settimana. È un lavoro che non gli piace; preferisce suonare la tromba nell’improbabile gruppo dei Bogoncelli, musicisti e narratori. E stare con la sua ragazza, Bassotuba, anche se forse è meglio la gatta Paolo…. Originale, dissacrante, insieme dolceamaro e divertentissimo, Le cose non sono le cose racconta senza pudore una storia di resistenza umana in cui il quotidiano diventa surreale.

«E noi, che cosa stiamo diventando? E io, cosa sono diventato?» si chiede Paolo Nori. E la risposta viene da una lontananza che in verità brucia distanze e porta con sé, come fosse turbine di visioni, di fatti, di sentimenti, e naturalmente di poesia, la vita di Anna Achmatova.
«Vogliamo raccontare» dice Nori «la storia di Anna Achmatova, una poetessa russa nata nei pressi di Odessa nel 1889 e morta a Mosca nel 1966. Anche se Anna Achmatova voleva essere chiamata poeta, non poetessa, e non si chiamava, in realtà, Achmatova, si chiamava Gorenko; quando suo padre, un ufficiale della Marina russa, seppe che la figlia scriveva delle poesie, le disse “Non mischiare il nostro cognome con queste faccende disonorevoli”. Allora lei, invece di smettere di scrivere versi, pensò bene di cambiar cognome. E prese il cognome di una sua antenata da parte di madre, una principessa tartara: Achmatova». Anna era una donna forte, una donna che, «con la sola inclinazione del capo – come ebbe a dire Iosif Brodskij, suo amico e futuro premio Nobel – ti trasformava in homo sapiens». “Suora e prostituta” per i critici sovietici, esclusa dall’Unione degli scrittori, privata degli affetti più cari, diventata, durante la Seconda guerra mondiale, la voce più popolare della Russia sotto l’assedio nazista, indi rimessa al bando, sorvegliata, senza mezzi. Ha profuso ostinazione e fermezza. Ha patito come patiscono le anime che, anche quando cedono, non cedono. Non ha smesso di scrivere, anche quando la sua poesia si poteva soltanto passare di bocca in bocca. Ha saputo, alla fine della sua vita, essere quel che voleva diventare: la più grande poetessa, anzi, il più grande poeta russo dei suoi tempi.
Dopo essere entrato in quella di Dostoevskij, Nori entra in un’altra vita incredibile, ma questa volta ci rendiamo conto che, nell’avvicinare Anna a noi come siamo diventati, e noi alla Russia come è diventata, ci troviamo di fronte a un’urgenza crudele, a una figura che ci guarda, ci riguarda, e ci tocca più forte dove siamo ancora umane creature.

Ci sono periodi in cui avresti voglia di comprare un’affettatrice, un prosciutto, sedici pacchi di pan carré e otto tubetti di maionese, tornare a casa, mangiare, andare a letto, svegliarti, mangiare, andare a letto.
“E quando le cose andavano male, e le cose andavano piuttosto male, mi veniva su una tenerezza, per me, per la mia vita insensata, che non avrei saputo dire se fosse stata un bene, un male, oppure niente.”
E in quei giorni ti viene spesso da chiederti: ma sta andando tutto bene o tutto male? Che cosa vuol dire incidere sulla realtà? E soprattutto: a cosa servono i gatti?
Tra solitudine e spaesamento (nella cucina di casa così come in vacanza ad Amsterdam), autoironia e tenerezza, un testo divertente e un po’ amaro sui momenti di “nulla” che tutti viviamo.

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